giovedì 19 gennaio 2012

...e se l'Area C premia?

Una interessante proposta su premialità e Area C, di Giorgio Boccardi:
La feroce polemica che si è scatenata in questi ultimi tempi a seguito dei provvedimenti presi dalla giunta Pisapia nel tentativo di mettere finalmente un po’ di ordine nel traffico cittadino mi induce a riprendere in considerazione una mia vecchia riflessione su un concetto che, a mio sommesso parere, potrebbe non solo abbassare notevolmente il livello di litigiosità su questo argomento ma anche indurre ad una meditata valutazione della sua applicabilità in molti settori della vita sociale e –cosa non da poco- nella formulazione

di quelle regole che devono servire ad orientarla e a regolarla in vista del bene comune e siccome vorrei tanto che la mia partecipazione alla vita del Circolo –purtroppo limitata per motivi personali- non si riducesse all’ascolto, a qualche sporadico intervento, a qualche votazione, ma servisse anche per un arricchimento delle idee e delle iniziative, provo a illustrarla nella speranza che possa essere considerata utile.

Pur non essendo un vero e proprio neologismo, il termine premialità è entrato relativamente solo di recente nel linguaggio comune trovando larga utilizzazione particolarmente  in campo penalistico; basti pensare a quanto frequentemente la magistratura  faccia ricorso a questo metodo o istituto che dir si voglia nella gestione dei cosiddetti collaboratori di giustizia.
In questa sede non interessa però fermare l’attenzione su una astratta analisi semantica del termine ma invece sulla  differenza che a mio avviso distingue dal punto di vista funzionale il concetto di premio da quello di premialità. Nel primo infatti io vedo “il riconoscimento” che viene concesso ad un soggetto (singola persona, associazione, istituzione) per un merito (già) acquisito in campo artistico, scientifico, sociale o di qualunque altro genere ; il secondo invece, a mio giudizio, si concretizza in un metodo diretto ad ottenere nel tempo dal maggior numero di soggetti l’adesione  spontanea, convinta all’osservanza  di regole finalizzate al bene comune. 
Faccio questa premessa perché ritengo che, così inteso, il concetto di premialità possa assumere un valore molto importante nel concepire e per certi aspetti ancor più nel formulare norme di legge e disposizioni di comportamento in genere. Una norma improntata a questo concetto si distingue infatti nettamente da quelle tradizionali, perchè queste vengono percepite dal cittadino fondamentalmente, se non esclusivamente, come  un “divieto” o un “obbligo” che se non sono rispettati comportano una pena, mentre la norma improntata alla premialità offre al cittadino (anche) un’opzione,  una opportunità con la conseguente possibilità di trarre dalla sua osservanza un beneficio.

Per esplicare la sua efficacia  tale legge deve quindi necessariamente avere sul piano formale tre caratteristiche: indicare certo chiaramente la finalità per la quale viene emanata, ma direi soprattutto rendere evidenti le condizioni la cui osservanza consente al cittadino di trarre un beneficio e infine presentare questo beneficio nella forma psicologicamente più accattivante. Si tratta di tre caratteristiche fra loro assolutamente inscindibili e -sotto un certo profilo- la seconda e la terza, finiscono un po’ paradossalmente, con l’essere ancora più importanti ai fini di ottenere l’osservanza della norma stessa. La contrarietà dei contribuenti a pagare le tasse viene spiegata con motivazioni varie, con giustificazioni spesso interessate ed ipocrite e con la canonica argomentazione che il cittadino non vede il “ritorno”  del suo sacrificio finanziario; non lo vede sia perché viene disperso in mille diverse voci dall’Ente percettore del tributo, sia perché il tempo che in genere intercorre fra il momento del suo sacrificio e quello  del beneficio che gli può derivare è in genere talmente lungo da renderne impercettibile il collegamento. La contrarietà dei cittadini a modificare i propri comportamenti quotidiani nasce spesso solo dal pregiudiziale rifiuto sia di qualsiasi novità, sia di rinunciare ad una propria inveterata comodità, o abitudine. Ecco, secondo me l’adozione di una filosofia della premialità nella scelta e nella formulazione di norme, sia a livello locale sia a livello statale poterebbe non dico capovolgere ma almeno radicalmente modificare nel tempo l’atteggiamento mentale della gente perché le consentirebbe di vedere nel rispetto delle leggi un’opportunità. Certo essa non può essere applicabile a tutto il sistema  giuridico nel suo complesso, ma è particolarmente adatta per quelle che, per intenderci, potremmo definire norme tipicamente comportamentali e nel tempo potrebbe facilitare  lo sviluppo  di quel senso civico che per ora è da noi ancora così carente. Una carenza che –bisogna riconoscerlo- ha anche una sua spiegazione storica; infatti la società italiana, per ragioni che trovano origine nella peculiarità dell’evoluzione che la sua storia politica e religiosa ha avuto nei secoli, ha sviluppato una spiccata insofferenza agli ordini, ai precetti, alle regole perchè, a torto o a ragione,  li ha sempre considerati un atto di imperio, se non addirittura di arbitrio, comunque una limitazione della propria personale libertà. Intendiamoci, questo è anche un po’ la negativa conseguenza dell’innata propensione che il popolo ha sempre avuto ad affidarsi ad un capo (spesso nominato dall’alto per discendenza ereditaria, per designazione o cooptazione, talvolta –al contrario- per una emozionale, acritica proclamazione di massa) cui ha delegato il compito di affrontare e risolvere i propri problemi con la quasi inevitabile conseguenza di percepire poi le regole impostegli come qualcosa di non suo, qualcosa che non merita di essere considerato nel proprio interesse. Oggi poi questa inclinazione, per certi aspetti antropologica nel nostro Paese, alla deresponsabilizzazione si è evoluta in un diffuso irrefrenabile piacere della trasgressione alimentato spesso da una pubblicistica nefasta e che (diciamo così per via induttiva) è sfociato in quella che argutamente Ilvo Diamanti ha chiamato la amorale civica degli italiani e, sul piano più propriamente sociale,  si è tradotto in quella diffusa apatia politica così ben descritta da Gustavo Zagrebelski.

Ora però in concreto dobbiamo chiederci: come dovrebbe essere impostata una legislazione che volesse far leva sulla premialità? In quali campi essa potrebbe trovare applicazione? Quale accoglienza, quali resistenze troverebbe? Sicuramente non esiste un'unica risposta, ma piuttosto tante risposte improntate all’attenta osservazione sia delle singole realtà, sia delle caratteristiche ambientali, sia della specifica materia su cui si vuole intervenire, sia delle condizioni economiche della popolazione, sia della mentalità, delle consuetudini, del livello culturale della stessa.  E’ evidente che ciò che può valere per una grande città non lo è per un piccolo centro, i problemi che riguardano un’area industrializzata sono diversi da quelli propri di un’area agricola, le soluzioni da adottare per nuclei urbani di pianura non sono automaticamente applicabili a quelli di montagna e via di seguito. Occorre quindi molto pragmatismo non disgiunto magari da un po’ di immaginazione e di fantasia.

Ora, a mio avviso la polemica scatenata dal recente provvedimento della Giunta Pisapia in materia di decongestionamento del traffico rappresenta in un certo senso un caso di scuola per adottare una soluzione ispirata al principio della premialità.  Proviamo a chiederci: quale potrebbe essere la reazione dei cittadini/contribuenti se si desse loro la possibilità di detrarre dalla denuncia annuale dei redditi il costo sostenuto per l’abbonamento personalizzato ai mezzi di trasporto pubblici? metropolitana, tram, autobus, bike-sharing? Io credo che l’impatto psicologico che avrebbe la prospettiva di pagare meno tasse sarebbe fortissimo e che il desiderio di approfittarne si diffonderebbe in maniera…epidemica.  Se poi analoga opportunità, in base ad accordi a livello regionale potesse essere estesa ai cosiddetti pendolari si avrebbe une vera rivoluzione dei comportamenti che consentirebbe  non solo un miglioramento della circolazione ma addirittura un miglioramento dell’inquinamento atmosferico. Sia chiaro che una simile norma non sarebbe in contrapposizione a quelle tradizionali, ma le integrerebbe e, nel medio-lungo periodo, probabilmente le renderebbe superflue.
 Le obiezioni che certamente verrebbero sollevate credo possano essere così sommariamente raggruppate:
la prima che non è possibile trasferire sulla fiscalità generale l’onere di benefici che riguardano Enti locali, perché si altererebbero le previsioni di bilancio dello Stato;
la seconda che, anche ammesso che ciò sia realizzabile, ci si troverebbe di fronte ad una specie di partita di giro che comunque ridurrebbe le entrate erariali;
la terza che è pura illusione aspettarsi che chi è abituato ad usare il proprio  veicolo personale vi rinunci solo perché gli viene prospettata un’opportunità di questo genere e di questa entità.
Sulla prima e sulla seconda mi sembrano fondate tre considerazioni: in primo luogo mi rifiuto  di pensare che in cima ai programmi di una buona amministrazione (locale o statale non importa) possa esserci l’aumento delle entrate e non il bene pubblico;  in secondo luogo gli Enti locali potrebbero trovare da parte loro una disponibilità finanziaria nelle cosiddette addizionali; in terzo luogo le minori entrate, almeno parzialmente, sarebbero compensate da un incremento di quelle ottenute dalla aziende pubbliche di trasporto perchè aumenterebbe notevolmente il numero degli utenti paganti. Da ultimo poi io sono convinto che –specie in un momento come quello attuale-  il ricorso ad una normativa che non privilegi una categoria sociale rispetto ad altre, ma offra a tutti una prospettiva di riduzione del carico fiscale troverebbe nell’opinione pubblica un entusiastico consenso...
In merito alla terza critica ricordo che la sua consistenza è quanto mai opinabile. Ormai da anni quel ramo della scienza economica che ha preso il nome “Economia comportamentale o cognitiva” ha ampiamente dimostrato che le scelte in campo economico che l’uomo fa soprattutto nella quotidianità frequentemente non sono per nulla conseguenti a scelte veramente razionali, ma sono invece contaminate da impulsi che trovano la loro origine in preferenze strettamente personali, nell’incapacità di rinunciare ad abitudini radicate, o sono dettate da emulazione, o da mode  oppure ancora,  sono il frutto di un condizionamento determinato da  attraenti strategie di marketing con cui altri influenzano  scelte che di razionale hanno ben poco. Gli esempi che si potrebbero fare sono infiniti; a puro titolo di esempio mi limito a ricordare le faticose code che si fanno durante le operazioni “promozionali” o i “saldi” che terminano ahimè spesso con acquisti inutili e così pure la pazienza certosina con cui viene programmata la spesa quotidiana soprattutto per accumulare  “punti” di valore assolutamente infimo pur di completare la agognata “raccolta”.
Orbene io sono convinto che se nel suo complesso la normativa con cui si deve gestire la “cosa pubblica”, sia a livello nazionale, sia a livello locale, fosse adeguatamente caratterizzata da questa filosofia della premialità incontrerebbe molte meno resistenze da parte dei cittadini, o addirittura  (voglio commettere un peccato di ottimismo) una diffusa ma spontanea  adesione. Certo sarebbe insensato pensare che questo determinerebbe un capovolgimento immediato, rapidissimo del comportamento della gente, ma è certo, secondo me, che il passaggio di informazioni che si svilupperebbe  fra le persone potrebbe  portare a insperati risultati.




1 commento:

Cittadino Marco ha detto...

Dobbiamo ringraziare Giorgio Boccardi per la sua fine disquisizione sui massimi fondamenti del consenso ai provvedimenti che hanno come scopo il raggiungimento del bene comune (e non del bieco interesse di alcuni singoli). Io, che invece non sono altrettanto ferrato in materia, riesco solo a pensare che il legislatore (nazionale o comunale che sia) debba avere la lungimiranza di elaborare un progetto per lo Stato o per il Comune. Se il progetto è stato condiviso dai suoi elettori, allora il legislatore dovrà avere la capacità ed il coraggio di realizzare il programma tenendo presente che alcuni provvedimenti rivolti a questo scopo potranno essere impopolari (ancorché giusti), affrontando persino il rischio di perdere le successive elezioni pur di raggiungere il bene comune. Se prendiamo in esame il caso specifico (l’area C), il Sindaco e’ già stato confortato da un referendum popolare, ha l’ obbligo di non ignorare la misera condizione della qualità dell’aria e del traffico cittadino, quindi non può che prendere i migliori provvedimenti possibili. Non potendo ancora arrivare alla pedonalizzazione totale, ben (anzi, benissimo) venga l’area C: il provvedimento deve andare avanti (con eventuali migliorie individuate durante la sperimentazione), senza timore delle campagne di stampa dell’ opposizione (avrebbero osteggiato qualsiasi soluzione) ma con la consapevolezza della ragione e del buon senso. La mia opinione nasce dalla mia quotidiana esperienza: ho da tempo migliorato la qualità della mia vita rinunciando all’ abuso dell’ auto (la uso solo una volta alla settimana per andare nei supermercati periferici e quando vado in vacanza), utilizzando per andare al lavoro la bici (su pista ciclabile) o, quando piove o fa freddo, i mezzi pubblici o, meglio ancora, i miei piedi (il tempo di percorrenza e’ solo di poco superiore all’ auto).
Invito quindi tutti i membri del Circolo a sostenere con convinzione questo provvedimento (indipendentemente dalla premialità che ne possa derivare) e a diffondere la consapevolezza che tutte le leggi che mirano al bene comune devono avere la priorità su qualsiasi provvedimento che prometta benefici per singole categorie (cito per primi i tassisti, solo perché sono di moda, ma vale per tutte le categorie) e ad esse deve essere restituita quella dignità e quella nobiltà che la becera incultura dell’attuale cdx avevano sottratto.