La feroce polemica che si è scatenata in questi ultimi tempi a seguito dei provvedimenti presi dalla giunta Pisapia nel tentativo di mettere finalmente un po’ di ordine nel traffico cittadino mi induce a riprendere in considerazione una mia vecchia riflessione su un concetto che, a mio sommesso parere, potrebbe non solo abbassare notevolmente il livello di litigiosità su questo argomento ma anche indurre ad una meditata valutazione della sua applicabilità in molti settori della vita sociale e –cosa non da poco- nella formulazione
di quelle regole che devono servire ad orientarla e a regolarla in
vista del bene comune e siccome vorrei tanto che la mia partecipazione alla
vita del Circolo –purtroppo limitata per motivi personali- non si riducesse
all’ascolto, a qualche sporadico intervento, a qualche votazione, ma servisse
anche per un arricchimento delle idee e delle iniziative, provo a illustrarla
nella speranza che possa essere considerata utile.
Pur non essendo un vero e proprio neologismo, il termine premialità è entrato relativamente solo di recente nel linguaggio comune trovando larga utilizzazione particolarmente in campo penalistico; basti pensare a quanto frequentemente la magistratura faccia ricorso a questo metodo o istituto che dir si voglia nella gestione dei cosiddetti collaboratori di giustizia.
In questa sede non interessa però fermare l’attenzione su una
astratta analisi semantica del termine ma invece sulla differenza che a mio avviso distingue dal
punto di vista funzionale il concetto di premio
da quello di premialità. Nel primo
infatti io vedo “il riconoscimento” che
viene concesso ad un soggetto (singola persona, associazione, istituzione) per
un merito (già) acquisito in campo artistico, scientifico, sociale o di qualunque
altro genere ; il secondo invece, a mio giudizio, si concretizza in un metodo diretto ad ottenere nel
tempo dal maggior numero di soggetti l’adesione spontanea, convinta all’osservanza di regole finalizzate al bene comune.
Faccio questa premessa perché ritengo che, così inteso, il
concetto di premialità possa assumere un valore molto importante nel concepire
e per certi aspetti ancor più nel formulare norme di legge e disposizioni di
comportamento in genere. Una norma improntata a questo concetto si distingue
infatti nettamente da quelle tradizionali, perchè queste vengono percepite dal
cittadino fondamentalmente, se non esclusivamente, come un “divieto” o un “obbligo” che se non sono
rispettati comportano una pena, mentre la norma improntata alla premialità
offre al cittadino (anche) un’opzione,
una opportunità con la conseguente possibilità di trarre dalla sua
osservanza un beneficio.
Per esplicare la sua efficacia tale legge deve quindi necessariamente avere sul
piano formale tre caratteristiche: indicare certo chiaramente la finalità per
la quale viene emanata, ma direi soprattutto rendere evidenti le condizioni la
cui osservanza consente al cittadino di trarre un beneficio e infine presentare
questo beneficio nella forma psicologicamente più accattivante. Si tratta di tre
caratteristiche fra loro assolutamente inscindibili e -sotto un certo profilo-
la seconda e la terza, finiscono un po’ paradossalmente, con l’essere ancora
più importanti ai fini di ottenere l’osservanza della norma stessa. La
contrarietà dei contribuenti a pagare le tasse viene spiegata con motivazioni
varie, con giustificazioni spesso interessate ed ipocrite e con la canonica
argomentazione che il cittadino non vede il “ritorno” del suo sacrificio finanziario; non lo vede
sia perché viene disperso in mille diverse voci dall’Ente percettore del
tributo, sia perché il tempo che in genere intercorre fra il momento del suo
sacrificio e quello del beneficio che
gli può derivare è in genere talmente lungo da renderne impercettibile il
collegamento. La contrarietà dei cittadini a modificare i propri comportamenti
quotidiani nasce spesso solo dal pregiudiziale rifiuto sia di qualsiasi novità,
sia di rinunciare ad una propria inveterata comodità, o abitudine. Ecco,
secondo me l’adozione di una filosofia
della premialità nella scelta e nella formulazione di norme, sia a livello
locale sia a livello statale poterebbe non dico capovolgere ma almeno
radicalmente modificare nel tempo l’atteggiamento mentale della gente perché le
consentirebbe di vedere nel rispetto delle leggi un’opportunità. Certo essa non
può essere applicabile a tutto il sistema giuridico nel suo complesso, ma è
particolarmente adatta per quelle che, per intenderci, potremmo definire norme tipicamente
comportamentali e nel tempo potrebbe facilitare lo sviluppo
di quel senso civico che per ora è da noi ancora così carente. Una
carenza che –bisogna riconoscerlo- ha anche una sua spiegazione storica; infatti
la società italiana, per ragioni che trovano origine nella peculiarità
dell’evoluzione che la sua storia politica e religiosa ha avuto nei secoli, ha
sviluppato una spiccata insofferenza agli ordini, ai precetti, alle regole
perchè, a torto o a ragione, li ha
sempre considerati un atto di imperio, se non addirittura di arbitrio, comunque
una limitazione della propria personale libertà. Intendiamoci, questo è anche
un po’ la negativa conseguenza dell’innata propensione che il popolo ha sempre
avuto ad affidarsi ad un capo (spesso nominato dall’alto per discendenza
ereditaria, per designazione o cooptazione, talvolta –al contrario- per una
emozionale, acritica proclamazione di massa) cui ha delegato il compito di
affrontare e risolvere i propri problemi con la quasi inevitabile conseguenza
di percepire poi le regole impostegli come qualcosa di non suo, qualcosa che
non merita di essere considerato nel proprio interesse. Oggi poi questa
inclinazione, per certi aspetti antropologica nel nostro Paese, alla
deresponsabilizzazione si è evoluta in un diffuso irrefrenabile piacere della
trasgressione alimentato spesso da una pubblicistica nefasta e che (diciamo
così per via induttiva) è sfociato in quella che argutamente Ilvo Diamanti ha
chiamato la amorale civica degli italiani
e, sul piano più propriamente sociale,
si è tradotto in quella diffusa apatia
politica così ben descritta da Gustavo Zagrebelski.
Ora però in concreto dobbiamo chiederci: come dovrebbe essere
impostata una legislazione che volesse far leva sulla premialità? In quali
campi essa potrebbe trovare applicazione? Quale accoglienza, quali resistenze
troverebbe? Sicuramente non esiste un'unica risposta, ma piuttosto tante
risposte improntate all’attenta osservazione sia delle singole realtà, sia
delle caratteristiche ambientali, sia della specifica materia su cui si vuole
intervenire, sia delle condizioni economiche della popolazione, sia della
mentalità, delle consuetudini, del livello culturale della stessa. E’ evidente che ciò che può valere per una
grande città non lo è per un piccolo centro, i problemi che riguardano un’area industrializzata
sono diversi da quelli propri di un’area agricola, le soluzioni da adottare per
nuclei urbani di pianura non sono automaticamente applicabili a quelli di
montagna e via di seguito. Occorre quindi molto pragmatismo non disgiunto
magari da un po’ di immaginazione e di fantasia.
Ora, a mio avviso la polemica scatenata dal recente
provvedimento della Giunta Pisapia in materia di decongestionamento del
traffico rappresenta in un certo senso un caso di scuola per adottare una
soluzione ispirata al principio della premialità. Proviamo a chiederci: quale potrebbe essere
la reazione dei cittadini/contribuenti se si desse loro la possibilità di
detrarre dalla denuncia annuale dei redditi il costo sostenuto per
l’abbonamento personalizzato ai
mezzi di trasporto pubblici? metropolitana, tram, autobus, bike-sharing? Io
credo che l’impatto psicologico che avrebbe la prospettiva di pagare meno tasse sarebbe fortissimo e
che il desiderio di approfittarne si diffonderebbe in maniera…epidemica. Se poi analoga opportunità, in base ad
accordi a livello regionale potesse essere estesa ai cosiddetti pendolari si
avrebbe une vera rivoluzione dei comportamenti che consentirebbe non solo un miglioramento della circolazione
ma addirittura un miglioramento dell’inquinamento atmosferico. Sia chiaro che
una simile norma non sarebbe in contrapposizione a quelle tradizionali, ma le
integrerebbe e, nel medio-lungo periodo, probabilmente le renderebbe superflue.
Le obiezioni che
certamente verrebbero sollevate credo possano essere così sommariamente raggruppate:
la prima che non è possibile trasferire sulla fiscalità
generale l’onere di benefici che riguardano Enti locali, perché si
altererebbero le previsioni di bilancio dello Stato;
la seconda che, anche ammesso che ciò sia realizzabile, ci si
troverebbe di fronte ad una specie di partita di giro che comunque ridurrebbe
le entrate erariali;
la terza che è pura illusione aspettarsi che chi è abituato
ad usare il proprio veicolo personale vi
rinunci solo perché gli viene prospettata un’opportunità di questo genere e di
questa entità.
Sulla prima e
sulla seconda mi sembrano fondate tre considerazioni: in primo luogo mi
rifiuto di pensare che in cima ai
programmi di una buona amministrazione (locale o statale non importa) possa
esserci l’aumento delle entrate e non il bene pubblico; in secondo luogo gli Enti locali potrebbero
trovare da parte loro una disponibilità finanziaria nelle cosiddette
addizionali; in terzo luogo le minori entrate, almeno parzialmente, sarebbero
compensate da un incremento di quelle ottenute dalla aziende pubbliche di
trasporto perchè aumenterebbe notevolmente il numero degli utenti paganti. Da ultimo poi io sono convinto
che –specie in un momento come quello attuale-
il ricorso ad una normativa che non privilegi una categoria sociale
rispetto ad altre, ma offra a tutti una prospettiva di riduzione del carico
fiscale troverebbe nell’opinione pubblica un entusiastico consenso...
In merito alla terza critica ricordo che la sua consistenza è
quanto mai opinabile. Ormai da anni quel ramo della scienza economica che ha
preso il nome “Economia comportamentale o cognitiva” ha ampiamente dimostrato
che le scelte in campo economico che l’uomo fa soprattutto nella quotidianità frequentemente
non sono per nulla conseguenti a scelte veramente razionali, ma sono invece contaminate
da impulsi che trovano la loro origine in preferenze strettamente personali,
nell’incapacità di rinunciare ad abitudini radicate, o sono dettate da
emulazione, o da mode oppure
ancora, sono il frutto di un condizionamento
determinato da attraenti strategie di
marketing con cui altri influenzano
scelte che di razionale hanno ben poco. Gli esempi che si potrebbero fare
sono infiniti; a puro titolo di esempio mi limito a ricordare le faticose code
che si fanno durante le operazioni “promozionali” o i “saldi” che terminano ahimè
spesso con acquisti inutili e così pure la pazienza certosina con cui viene
programmata la spesa quotidiana soprattutto per accumulare “punti” di valore assolutamente infimo pur di
completare la agognata “raccolta”.
Orbene io sono convinto che se nel suo complesso la normativa
con cui si deve gestire la “cosa pubblica”, sia a livello nazionale, sia a
livello locale, fosse adeguatamente caratterizzata da questa filosofia della premialità incontrerebbe
molte meno resistenze da parte dei cittadini, o addirittura (voglio commettere un peccato di ottimismo)
una diffusa ma spontanea adesione. Certo
sarebbe insensato pensare che questo determinerebbe un capovolgimento immediato,
rapidissimo del comportamento della gente, ma è certo, secondo me, che il
passaggio di informazioni che si svilupperebbe
fra le persone potrebbe portare a
insperati risultati.

1 commento:
Dobbiamo ringraziare Giorgio Boccardi per la sua fine disquisizione sui massimi fondamenti del consenso ai provvedimenti che hanno come scopo il raggiungimento del bene comune (e non del bieco interesse di alcuni singoli). Io, che invece non sono altrettanto ferrato in materia, riesco solo a pensare che il legislatore (nazionale o comunale che sia) debba avere la lungimiranza di elaborare un progetto per lo Stato o per il Comune. Se il progetto è stato condiviso dai suoi elettori, allora il legislatore dovrà avere la capacità ed il coraggio di realizzare il programma tenendo presente che alcuni provvedimenti rivolti a questo scopo potranno essere impopolari (ancorché giusti), affrontando persino il rischio di perdere le successive elezioni pur di raggiungere il bene comune. Se prendiamo in esame il caso specifico (l’area C), il Sindaco e’ già stato confortato da un referendum popolare, ha l’ obbligo di non ignorare la misera condizione della qualità dell’aria e del traffico cittadino, quindi non può che prendere i migliori provvedimenti possibili. Non potendo ancora arrivare alla pedonalizzazione totale, ben (anzi, benissimo) venga l’area C: il provvedimento deve andare avanti (con eventuali migliorie individuate durante la sperimentazione), senza timore delle campagne di stampa dell’ opposizione (avrebbero osteggiato qualsiasi soluzione) ma con la consapevolezza della ragione e del buon senso. La mia opinione nasce dalla mia quotidiana esperienza: ho da tempo migliorato la qualità della mia vita rinunciando all’ abuso dell’ auto (la uso solo una volta alla settimana per andare nei supermercati periferici e quando vado in vacanza), utilizzando per andare al lavoro la bici (su pista ciclabile) o, quando piove o fa freddo, i mezzi pubblici o, meglio ancora, i miei piedi (il tempo di percorrenza e’ solo di poco superiore all’ auto).
Invito quindi tutti i membri del Circolo a sostenere con convinzione questo provvedimento (indipendentemente dalla premialità che ne possa derivare) e a diffondere la consapevolezza che tutte le leggi che mirano al bene comune devono avere la priorità su qualsiasi provvedimento che prometta benefici per singole categorie (cito per primi i tassisti, solo perché sono di moda, ma vale per tutte le categorie) e ad esse deve essere restituita quella dignità e quella nobiltà che la becera incultura dell’attuale cdx avevano sottratto.
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